I pangoccioli e una mattina di pace

I pangoccioli e una mattina di pace

Dalle finestre della mia nuova cucina la luce entra intensa, e in queste mattine di tardo inverno, senza una nuvola e con l’aria frizzante, guardo fuori mentre lascio che i raggi mi scaldino la casa e le braccia. Strizzo un po’ gli occhi nel bagliore, mentre osservo in silenzio la mia tazza.

Uno dei pangoccioli fatti la sera prima in una mano, ancora profumato e fragrante come appena tolto dal forno.  Fisso la schiuma del cappuccino e ascolto. Il silenzio.

Il silenzio che questa mattina non c’è a Kiev, dove fischiano bombe e allarmi antiaerei, dove la gente piange negli scantinati la stessa lacrima di quelli che stano lontani, col cuore straziato. Non mi interessa sentire ragioni, né le ragioni. Voglio solo sentire il silenzio. Voglio una colazione di una mattina qualunque per tutti, col sole giallo che entra dalla finestra, il cielo blu e fuori il silenzio.

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Questo mi dice tutto quello che c’è da sapere.

Questi Pangoccioli Vegani sono leggeri e buonissimi, meriterebbero una introduzione più allegra. Ma sono tempi grami, questi. Lasciamo entrare la dolcezza con questi sofficissimi panini, e speriamo che finisca presto.

Ingredienti:

250 g Farina 00
250 g farina manitoba
300 g latte di mandorla
90 g gocce di cioccolato
20 g lievito di birra fresco
80 g zucchero
30 g olio
1 cucchiaino sale
1 bustina di vanillina

Procedimento:

Anzitutto, mettete al freezer per mezz’ora le gocce di cioccolato, così si deformeranno di meno in fase di cottura.
In una ciotola (anche quella della planetaria) mettete le farine e mescolate.

In un’altra ciotola sciogliete il lievito di birra in metà quantità (presa dal totale) del latte di mandorla (va bene anche quello di avena o di riso, come preferite) appena tiepido, con un cucchiaino di zucchero, anch’esso preso dal totale.

Una volta che si sarà sciolto, aggiungete il latte con sciolto il lievito nelle farine, e poi unite lo zucchero rimasto, l’alta metà del latte (al massimo a temperatura ambiente o un po’ tiepido, non freddo di frigo), il sale, la vanillina e l’olio, e impastate.

Ci vorrà un pochino, perchè l’impasto deve essere ben liscio ed incordato. Solo per ultimo inserite anche le gocce di cioccolato e finite di impastare.

Ponete l’impasto in una ciotola, copritelo con della pellicola e lasciatelo lievitare fino al raddoppio (dipende dalla temperatura a casa vostra, il mio dopo 90 minuti era pronto).

Riprendete l’impasto, e dividetelo in panetti di circa 50 grammi cadauno. Dategli la forma di un panino tondo, e poggiateli sulla teglia già coperta con carta forno. Distanziateli un po’ perchè cresceranno leggermente.

Coprite i pangoccioli con un canovaccio e fate raddoppiare ancora di volume (tra i 90 e i 120 minuti).

Poi scaldate il forno a 200 gradi, e ponete a cuocere i pangoccioli per circa 10 minuti.

Crostata vegana con crema al caffè e cosa ho imparato da Veganuary

Crostata vegana con crema al caffè e cosa ho imparato da Veganuary

Gennaio, mese dei nuovi inizi, dei (buoni) propositi. Mese che saluta la pausa natalizia, stressante come ogni anno, ma quest’anno più di ogni anno, tra tamponi, quarantene, conta dei positivi e i negativi che si sentono accerchiati come l’ultimo rinoceronte bianco in mezzo a un gruppo di bracconieri armati.

Gennaio è anche il mese di Veganuary, scelto non a caso perchè, tra i buoni propositi, spesso c’è anche quello di cambiare totalmente vita. E come non catalogare la scelta vegana tra quelle che la vita non solo te la cambiano, ma te la stravolgono?
Quindi un mese, uno soltanto, si puo’ provare a mettersi alla prova, a cambiare davvero, prima di tutto, prospettiva sulle cose di ogni giorno, come mangiare. Attività primordiale e principale. Il motore dei nostri muscoli, del nostro cervello, del nostro tutto.

E adesso a noi. Perchè ho deciso per un mese intero di proporre solo (visto che questo blog è nato proprio così) dolci vegani?
(Per inciso, non solo li ho fatti, li ho anche mangiati, e con viva e vibrante soddisfazione, come diceva Crozza imitando il Presidente Napolitano!)

Perchè amo le sfide, prima di tutto. Ripensare all’ordinario facendolo diventare stra-ordinario, e non senza qualche insuccesso e disastro (che fa parte del processo di apprendimento).
Perchè probabilmente il veganesimo imperfetto diventerà sempre più preponderante, perchè il sistema alimentare attuale non so se reggerà ancora a lungo.
Perchè, comunque, i dolci vegani che mi sono riusciti (e pure quelli usciti inguardabili) sono buoni.

Difficoltà? Moltissime. Addensare un impasto senza uova spesso è una traggedia (con due g), sostituire lo zucchero con altri dolcificanti non mi è sempre riuscito, e – che sia chiaro a tutti – da solo lo yogurt di soia non lo mangerei mai perchè sa obiettivamente di cartone.

Però. L’ho fatto. Mi sono messa alla prova.
Questa è la mia ultima creazione, la Crostata vegana con crema al caffè (vegana pure lei, naturalmente). La ricetta della frolla vegan più buona, dopo una serie di tentativi, è quella del Maestro Montersino. Per la crema al caffè, ho modificato leggermente la crema pasticcera all’arancia che ho postato su Instagram ma non qui (aveva suscitato così poco interesse che non mi era perso il caso riproporla).
Fatela, vi assicuro che non ve ne pentirete. A parte che è obiettivamente buona, ma è facile, più di quanto non pensiate. La potete realizzare con del caffè amaro della moka, ma anche con il Nescafé , che segue anche pratiche di raccolta sostenibili.

Ingredienti (per una tortiera da 20 cm):
250 g farina (potete usare la 0 o anch eil farro, la 00 se non ne avete altre va bene comunque)
80 g zucchero di canna (o semolato)
60 g acqua
60 g olio di semi
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
mezzo cucchiaino di lievito
1 pizzico sale

per la crema
500 g latte di mandorla
40 g maizena
3 cucchiaini caffè solubile (per la ricetta col caffè della moka leggete la preparazione sotto)
90 g zucchero semolato o di canna
1 cucchiaino di estratto di vaniglia

Preparazione:
Iniziamo a preparare la Crostata vegana con crema al caffè dalla crema.
In un pentolino mettete la maizena con un pochino di latte di mandorla. Non ne serve tanto, solo per sciogliere l’amido di mais ed evitare i grumi. Aggiungete anche l’estratto di vaniglia (o i semi di mezzo baccello) e mescolate.
Unite poi il restante latte, i tre cucchiaini di caffè solubile e lo zucchero e mescolate molto bene.

Se avete il caffè, mettete 100 ml di caffè della moka e togliete 100 ml dalla quantità di latte di mandorla.

Mettete sul fuoco il pentolino e portate il tutto a bollore a fiamma medio bassa. Quando raggiunge il bollore fate cuocere per un paio di minuti al massimo, abbassando la fiamma al minimo. Divrebbe rimanere una crema densa ma non troppo.
A questo punto, togliete il pentolino dal fuoco, coprite la crema con un po’ di pellicola per evitare che si formi la crosticina sulla superficie e fate raffreddare.

Nel frattempo preparate la frolla vegana, mettendo in una ciotola lo zucchero e l’acqua. Mescolate con una forchetta per fare sciogliere lo zucchero, poi unite l’olio e miscelate nuovamente. Infine, unite a poco a poco la farina setacciata con il lievito, e quando si sarà formato un panetto che non appiccica più, copritelo con la pellicola e mettetelo a riposare in frigo per mezz’ora.

Trascorso questo periodo, riprendete la frolla dal frigorifero, dividetela in due parti e con l’aiuto del matterello stendetela a formare un cerchio delle dimensioni della teglia (di solito metto più impasto per il sotto, così posso ben coprire anche i lati.
Ungete e infarinate la teglia (potete usare anche gli spray non stick, ce ne sono alcuni in commercio che sono vegani, come questo che uso io di Fratelli Rebecchi. Preciso che è #noadv, li compro tutti!).

Prendete la frolla stesa più grande, e mettetela sul fondo della teglia. Bucherellate il fondo con i rebbi della forchetta.
Riprendete la vostra crema al caffè, e disponetela all’interno della frolla stesa uniformandola.
Coprite poi il tutto con il secondo disco di frolla, e abbiate cura di sigillare i bordi.
Per essere sicura, con i ritagli di pasta frolla rimasti, ho ricavato tante striscioline con l’aiuto della rotella taglia ravioli, e li ho posti tutti intorno al bordo della crostata.

Fate un forellino al centro della torta, se volete mettete della granella di nocciole sulla superficie (io l’ho fatto per decorazione e perchè sono buone, ma sono opzionali, potete usare anche le mandorle o niente). Mettete quindi la Crostata vegana con crema al caffè in forno già caldo a 180 gradi e cuocete per circa 35/40 minuti.

Il mio nuovo forno è Speedy Gonzales e l’ho dovuta tirare fuori alla mezz’ora perchè si stava bruciacchiando ai lati, voi ovviamente regolatevi e estraete la torta dal forno quando inizia a dorare in superficie. In generale 35/40 minuti è la cottura che copre tutti i tipi di forno.

Quando si sarà raffreddata toglietela dalla vostra teglia e spolverate la superficie di zucchero a velo.

Se bon vi piace il caffè, che ne dite di questa Crostata vegana alle mele?

I vichinghi e il salame di cioccolato (vegano)

I vichinghi e il salame di cioccolato (vegano)

Le due bibbie dei bambini degli anni Settanta del secolo scorso erano Il Manuale di Nonna Papera e Il Manuale delle Giovani Marmotte. Edizioni 1970 e 1969, rispettivamente.
Non erano libri, ma scuole di vita.
Se adesso guardo un tronco di un albero e vedo il muschio verde su un lato del tronco so subito dov’è il nord. E non l’ho studiato a scuola, ma sul Manuale delle Giovani Marmotte, terza edizione per la precisione.
Noi, bambini di città, lo leggevamo avidamente. Io, poi, lo avevo in mano continuamente.
Le Giovani Marmotte stanno alla vita all’aria aperta come il Manuale di Nonna Papera sta alla cucina.
Prima delle due Benedette, di Knam e il cioccolato, di Massari e dei pasticceri star c’era lei.
Nonna Papera.
Ma come dimenticare la ciambella Inca-Urka? O il latte Buglione, che era una sorte di dulce de leche?
A casa nostra andava o la torta di mele, fatta in una teglia di alluminio piena zeppa di bozzi dalle tante cadute che aveva fatto, oppure e soprattutto il salame di cioccolato, che la Nonna Papera chiamava Salame Vichingo.

In realtà il Salame di Cioccolato si chiamerebbe Salame turco per via del colore, ma tanti lo chiamano anche salame inglese o salame del re. E’ diffuso in un sacco di regioni in Italia, ma va forte anche in Portogallo. E’ facilissimo da fare, bellissimo da vedere, scenografico da fotografare.
Ogni regione ha la sua versione. In Piemonte gianduia e nocciole la fanno da padrona. In Emilia Romagna non può mancare sulle tavole pasquali, anche per usare gli avanzi delle uova.

Poi c’è quello di Nonna Papera, che era “vichingo” perchè sui fianchi delle loro navi venivano esposti (secondo la nonna, che evidentemente c’era…) scudi neri e gialli, che hanno ispirato la Nonna di Qui Quo e Qua a ribattezzare il famoso salame dolce.

Per ultima arrivo io, con la versione vegana del salame di cioccolato, che fa a meno di uova e burro, ma che è comunque buonissima. Anzi, proprio per questo ha un gusto di cioccolato bello deciso, e con un po’ di rum (ma potete ometterlo) si farà sicuramente ricordare.

Ingredienti:
200 g cioccolato fondente
120 g di biscotti vegan (meglio secchi)
120 g di frutta secca (io ho usato anacardi e mandorle, potete usare anche le nocciole)
60 g latte di mandorla
50 g olio di semi
un cucchiaio di rum (opzionale)
mezzo cucchiaino di essenza di vaniglia
cannella
zucchero a velo per decorare

Procedimento:
In un padellino tostate la frutta secca, e mettetela da parte a raffreddare.

Prendete il cioccolato, tagliatelo a pezzetti e scioglietelo a bagnomaria.
Fatelo intiepidire, e intanto riprendete la frutta secca, tagliatela al coltello e mettetela da parte.
Sbriciolate anche i biscotti con le mani, così avrete dei pezzi irregolari che daranno un ottimo aspetto al vostro salame.

Quando il cioccolato si sarà leggermente intiepidito, unite ad esso gli altri liquidi (olio, latte di mandorla, rum se volete, ed essenza di vaniglia). Unite anche la cannella (ne basta solo un pizzico, se non vi piace potete ometterla), e mescolate bene per amalgamare tutti gli ingredienti.

Alla fine, aggiungete i biscotti e la frutta secca, e amalgamate il tutto in modo che il cioccolato permei tutti gli ingredienti.

Lasciate raffreddare ancora un poco, poi prendete un foglio di alluminio. Stendetevi sopra un foglio di carta forno, e mettete il composto col cioccolato sopra la carta forno e arrotolatelo cercando di dargli la forma di un salame.

Avvolgetelo anche nella stagnola, e fate raffreddare completamente, poi mettete a rapprendere in frigorifero per qualche ora.

Estraetelo dal frigo una ventina di minuti prima di servire. Se volete, potete ricoprirlo di zucchero a velo, per dare proprio l’idea del “salame”.

Tiramisù vegan e senza glutine

Tiramisù vegan e senza glutine

Il veganismo, prima che una scelta dietetica, è (o meglio, dovrebbe essere) una scelta etica ed esistenziale. Il rifiuto di ogni forma di sfruttamento e di crudeltà verso gli animali non ha implicazioni soltanto nel piatto, ma in tutti gli aspetti della propria vita.
Quindi, il veganismo integrale rifiuta anche quei prodotti (cosmetici, farmaci, arredi, abbigliamento, ma non solo) che derivano dallo sfruttamento del regno animale.
Anche i circhi. Soprattutto i circhi.

Io sono una vegana integralista su questo. Detesto i circhi in cui gli animali sono costretti a svolgere, per il puro divertimento umano, esercizi contro natura, ad assumere atteggiamenti umanoidi al limite del tollerabile. E gli zoo. Quegli occhioni tristi delle scimmiette nelle gabbie del vecchio parco giochi (erano gli anni Settanta) del Castello di Abbiategrasso mi rattristavano ogni volta.
Le guardavo col magone, pensando alla tremenda ingiustizia di starsene lì, a guardare quelle facce curiose che le scrutavano, così simili e diverse da loro, e quel clima umido e freddo, umido e caldo, a stagioni alterne.

Questo mese di questo anno mi sto mettendo alla prova con la mia Vegan Challenge, e sto sfornando esperimenti vegan a nastro. Da quando poi ho letto che la dieta vegan sarebbe quella più adatta ad aumentare le buone performances al lavoro, ho una ragione in più per esplorare quella che, più che una dieta, è uno stile di vita.
Gli studi più recenti, usciti proprio pochi giorni fa, pare dimostrino come la dieta vegana sia associata a bassi livelli infiammatori, che sono invece innescati dai cibi troppo raffinati, tipicamente quelli che mangiamo (ahimè troppo velocemente) durante un normale pranzo nell’ora di pausa. Meno infiammazione significa meno energie che il nostro cervello deve impiegare a processare cibi troppo raffinati, e che può usare quindi per fare altro.

Sebbene io non abbia ancora fatto esperienza di questo miracoloso aumento di energia (ma sospetto che siano le poche ore di sonno che mi annebbiano già prima di mezzogiorno), ammetto che questi esperimenti sono per me fonte di gran divertimento.

Oggi vi lascio un’idea di Tiramisù vegan e senza glutine, preparato tra l’altro velocissimamente e a sforzo quasi zero e usando, per iniziare, il procedimento della crema all’arancia che ho pubblicato su Instagram ma non qui (.. sono incorreggibile!). Insomma, poco impatto anche sull’ambiente e sui piatti da lavare. Naturalmente non immaginate di riprodurre il ricco (e grasso) sapore tondo del mascarpone, amalgamato con l’uovo, da cui emergono le note amarognole del caffè. Questo tiramisù è un’altra cosa.

Se riuscite a non avere pregiudizi, ed amate quel certo non so che che dà l’aroma della mandorla, vedrete che questo tiramisù lo apprezzerete eccome, anche perchè è superlight (qualora ne aveste bisogno).

Ingredienti (per 4 bicchieri monoporzione come quelli in foto):
450 g latte di mandorla (io ho usato questo)
35 g fecola di patate
45 g zucchero
45 g olio semi
2/3 tazzine di caffè (poco) zuccherato
cacao ed eventualmente scaglie di cioccolato per decorare
biscotti vegan e senza glutine (io ne ho messi 4 per bicchiere ma erano sottili, voi regolatevi sulla base del tipo di biscotti che userete)

Preparazione:
Sciogliete la fecola in una ciotolina usando un poco del latte totale, in modo che si sciolga bene evitando così i grumi.
Mettete in un pentolino sufficientemente capiente il resto del latte, lo zucchero, l’olio e la fecola ormai sciolta.
Accendete il fornello ed a fuoco medio basso portate il composto a sfiorare l’ebollizione, sempre mescolando con una frusta a mano.

Appena sfiorerà il bollore e la crema tenderà ad addensarsi, spegnere subito ed allontanare il pentolino dal fornello, continuando a mescolare con la frusta.
La crema deve essere densa ma non troppo compatta, deve mantenere comunque una certa morbidezza.

Prendete i bicchierini, prendete i biscotti ed intingeteli brevemente nel caffè zuccherato prima di fare un primo strato in fondo al bicchierino. Poi versatevi sopra la crema di latte di mandorla per coprirli bene, poi mettete un altro strato di biscotti intinti nel caffè, e poi completate ancora con della crema.

Riescono a venire circa tre strati non troppo alti per ogni bicchierino di tiramisù vegan senza glutine.

Lasciate raffreddare bene la crema e poi mettetela nel frigorifero a rassodare, idealmente anche tutta la notte (altrimenti un paio di ore bastano per far raggiungere un po’ di compattezza).

Estraete i bicchierini di tiramisù vegan senza glutine dal frigo un quarto d’ora prima di servirli, e spolverate la superficie con il cacao e, se vi va, con qualche scaglia o ricciolo di cioccolato fondente.

Brioches girella all’arancia e i buoni propositi

Brioches girella all’arancia e i buoni propositi

Quest’anno mi sono guardata bene dal fare liste di buoni propositi, auspici, desideri. Mi sono limitata a stare lì, pigiamata, col naso appiccicato alla finestra a guardare i fuochi di artificio la notte di Capodanno, senza un solo pensiero ad attraversare la mente.
Poi ho abbassato le tapparelle, mi sono rintanata sotto il piumone, e mi sono sentita in beatitudine col mondo. Del resto, il tempo sospeso è così. Non c’è pressione del futuro, né peso del passato.

Gli ultimi anni sono stati una grande corsa senza fiato. Ho rincorso tutto, senza avere tempo per niente. Ho rincorso quello che la famiglia, la società, si aspettava da me. Anche quello che io stessa aspettavo da me. Non sempre ha coinciso con quello che realmente volevo, ma del resto correvo all’impazzata e non ho avuto nemmeno il tempo di chiedermelo.

Sono stata in ritardo anche a scrivere le ricette. Ho pubblicato foto brutte perché avevo perso l’ispirazione, e poi mi sono arrabbiata perché lo sapevo che erano brutte, ma la ispirazione non la riuscivo più a trovare. Mi sono rimessa a scrivere, ma poi mi sono ricordata che scrivere costa fatica, e poi non sempre ho qualcosa da dire.

Eppure in questo gennaio mi si è aperta una luce, una nuova sfida. Il Veganuary 2022 per me è stato questo, un misurarmi nuovo con la pasticceria vegana. Nuove idee, nuova voglia di mettermi in gioco e di sperimentare. Ma senza fretta, perché i lievitati chiamano pazienza.

Le brioches girella all’arancia sono state il risultato (riuscito!) dell’ultimo weekend di pasticci in cucina. Sto ancora misurandomi con il nuovo forno, che si spegne improvvisamente da solo quando decide che la torta è cotta (non lo è). Quindi ho sorvegliato a vista queste splendide brioches, e le ho viste prendere il colore dorato dell’impasto con lampi di luce della marmellata di arance, gocce traslucenti nella penombra del forno.

Queste brioches sono una piccola evoluzione delle Brioches sfogliate vegane che trovate qui . Non sono difficili, anzi.
Potete naturalmente farcirle con tutte le confetture che volete, la crema di nocciole… spazio alla fantasia!
A ogni stagione il suo ripieno, ed avrete delle fragranti brioches profumatissime per la vostra colazione, in versione vegan.

Ingredienti (per circa 8/9 brioches):
150 g farina di farro
150 g farina 00
150 ml di latte di mandorla intiepidito
8 g lievito di birra
40 ml olio di semi
la scorza di un’arancia (o limone) bio
3/4 cucchiai di marmellata di arance (o altra confettura)
1 cucchiaio di sciroppo di agave

Procedimento:
Intiepidite il latte leggermente e scioglietevi il lievito di birra all’interno.
Nella ciotola della planetaria (o in una ciotola qualsiasi) versate le due farine, mescolatele tra loro, e poi versare il latte con il lievito sciolto, l’olio e la scorza dell’agrume di vostra scelta.

Iniziate ad impastare. L’impasto potrebbe risultare poco elastico, ma dovete insistere (se avete la planetaria sarà più semplice) perchè alla fine tutto verrà insieme ed avrete un impasto abbastanza liscio.

Mettete l’impasto in una ciotola pulita, copritelo con la pellicola e fatelo lievitare fino al raddoppio.
Dipende dalla temperatura di casa vostra, di solito ci vogliono un paio di ore.

Riprendete l’impasto, e stendetelo con l’aiuto di un matterello a forma rettangolare. Stendete poi la marmellata sull’impasto, tenendovi a distanza di circa un centimetro dal bordo.

Arrotolate l’impasto, sigillate l’ultimo lembo premendo leggermente e poi, con un coltello affilato o con l’aiuto di un filo interdentale (fa meraviglie!) tagliate delle rotelle di impasto dell’altezza di circ due o tre dita.

Mettete le brioches girella sulla placca del forno coperta di carta forno, e lasciate lievitare ancora per circa un’ora, ancora coperte dalla pellicola.

Fate andare il forno in temperatura a 180 gradi, e cuocete le vostre brioches girella all’arancia per una ventina di minuti.

Appena le brioches girella all’arancia sono cotte, estraetele dal forno e spennellatele ancora calde con dello sciroppo di agave. Se lo sciroppo fosse molto denso, scaldatelo per brevissimo tempo per liquefarlo.

Lasciate raffreddare e poi gustate le vostre stupende brioches girella all’arancia.

Portokalopita e quello strano desiderio di Grecia

Portokalopita e quello strano desiderio di Grecia

Dunque allora, qui stasera abbiamo Mela e Arancia. Siamo tutti diversi, ma alla fine siamo tutti frutta!”
Per chi, come me, la Grecia l’ha vista solo sui libri di scuola e nei film, portokalos è un nome conosciuto. Ricordate “Il mio grosso grasso matrimonio greco”? La famiglia della protagonista si chiama proprio così, Portokalos. “Arancio il frutto, non il colore” si affretta a spiegare Toula ai genitori del fidanzato Ian.

Amo la cucina greca, tutta. Souvlaki, gyros, Tzatziki… Tutti.
Tranne i dolci, che sono decisamente troppo dolci.
Può sembrare strano per questo blog, ma è anche la ragione per cui, fino ad oggi, non avete mai incontrato nessuna ricetta di dolci greci su queste pagine. Fino ad oggi, appunto.

Quando ho visto questa ricetta sul profilo della mia omonima amica Sara ho capito che era arrivato il momento di sfatare il mito. Ma dovevo farlo a modo mio.

Ecco allora che mi sono letta qualche ricetta di Portokalopita, e poi ho iniziato a fare i miei conti sulle sostituzioni, le quantità… ed oggi arriva a voi, direttamente da un weekend di studi semiseri, la Portokalopita Vegan. Ha un profumo eccezionale, una consistenza tutta sua (la assenza delle uova la fa diventare un po’ più crispy della versione originale), e il contrasto tra la acidità dell’arancia e lo sciroppo di zucchero smorza anche quel dolce eccessivo che, appunto, molti dolci greci hanno.

Il risultato? Sorprendente!
La torta ha un sentore meraviglioso di cannella e anice, e se in un primo momento esce prepotente l’arancio, un minuto dopo resta soltanto il sapore dolce delle spezie che fa venire voglia di assaggiarne un altro po’, per capire di quale sia quel profumo che rimane dopo l’ultimo boccone.

La Portokalopita è anche l’ennesimo mio tentativo di lanciare l’ennesimo hashtag che sarà l’ennesimo insuccesso..e ci vuole talento anche per questo! Che dirvi… più facile preparare questa torta!

Ingredienti (per una teglia quadrata 20×20 circa):
per la torta
300 g pasta fillo (una confezione)
170 g di yogurt bianco di soia
200 ml olio si demi
160 g zucchero semolato
200 ml di succo di arancia filtrato
8 g fecola di patate
8 g lievito per dolci
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
zeste di un arancia non trattata

per lo sciroppo
260 g acqua
130 g zucchero semolato
zeste di un’arancia
1 cucchiaino di semi di anice
1 bastoncino di cannella

Procedimento:
Preparare la Portokalopita vegan è semplicissimo. Anzitutto dovete prendere la pasta fillo e metterla in forno a farla asciugare. Io l’ho lasciata un po’ troppo perchè mi sono messa a caricare la lavatrice (ahimè! quando ero giovane il multitasking mi faceva un baffo!) ma bastano una decina di minuti a circa 120 gradi.

Nel frattempo potete preparare lo sciroppo. In un pentolino versare l’acqua, le zeste dell’arancia e lo zucchero, oltre ai semi di anice e alla cannella. Fate bollire, poi lasciate sobbollire a fuoco basso per circa dieci minuti, in modo che lo zucchero si possa sciogliere.
Togliete dal fuoco e fate raffreddare (se nel frattempo farete il resto della ricetta e aspetterete la cottura, si sarà raffreddato da sé), e poi filtrate così le spezie resteranno in infusione ma non rimarranno nello sciroppo quando dovrà essere usato.

In una ciotola capiente mettete l’olio e lo zucchero e mescolate con una frusta a mano, per far sciogliere lo zucchero. Unite poi lo yogurt di soia, le zeste dell’arancia, la fecola e l’estratto di vaniglia. Mescolate ancora con la frusta, in modo che si formi un impasto piuttosto liquido ma comunque consistente.

Riprendete la pasta fillo, che nel frattempo si sarà seccata. Ci sono due scuole di pensiero: c’è chi la lascia intera, la infila nella teglia per dolci e sopra ci versa l’impasto, e chi – come ho fatto io – la spezzetta mettendola in parte nell’impasto e in parte sul fondo della teglia.
Fate come preferite, ci sono mille modi tante quante sono le famiglie in Grecia, quindi non è che ci sia proprio il modo giusto!
In ogni caso, la teglia che userete deve essere coperta dalla carta forno (mi ringrazierete, fidatevi!).
Se volete, potete decorare la superficie con delle fettine di arancia.

Scaldate il forno a 180 gradi e quando è arrivato a temperatura inserite la portokalopita vegan in forno a cuocere per circa mezz’ora (dipende dal forno, il mio nuovo cuoce molto più velocemente, magari a voi ci vorranno 5 minuti in più).

Estraete a fine cottura la torta e, quando la portokalopita è ancora calda, versatevi sopra lo sciroppo filtrato, aiutandovi con un cucchiaio, in modo che impregni tutta la torta.

Lasciatela intiepidire e poi servitela.
Credetemi, è speciale.

Pan di carote (la domanda è rosso fuoco e l’autunno è arancione)

Pan di carote (la domanda è rosso fuoco e l’autunno è arancione)

In autunno le città diventano improvvisamente grigie, ma gli orti in città sprizzano di un solo colore.
Arancione.
Cachi, zucche, arance e i primi mandarini. L’arancione è il colore del primo autunno, e insieme alle foglie che generosamente cadono sui grigi marciapiedi, illuminano le giornate che si accorciano e raffreddano.
L’arancione scalda più di un plaid e una calda tisana tra le mani.
Scalda anche un forno acceso, e un delicato profumo di dolce che si diffonde per casa.

In questa che sta diventando la mia seconda stagione preferita dopo la primavera, non c’è nulla di più soddisfacente che circondarmi di allegria, quindi di arancione.
Potrà sembrare strano inaugurare la stagione arancione con le carote, che sono il frutto primaverile per eccellenza. In realtà, sono la perfetta sintesi delle mie due stagioni preferite, perchè arrivano a fine primavera e si protraggono fino all’autunno, tenendo insieme come in un dolce abbraccio nove mesi di vita.

Queste sono le ultime carote, anche se ormai si trovano tutto l’anno. Ma sono le ultimissime della loro stagione, e ho pensato che fosse bello salutarle utilizzandole in una delle mie torte da credenza preferite, il Pan di Carote.
In realtà chiamo “pan di” tutte quelle torte per cui uso la polpa del frutto frullata nella composizione del dolce (se volete una ottima ricetta di Pan di Mela, la trovate qui). In fondo, però, il nome ha poca importanza. Tanto avrete la bocca impegnata a masticare fetta dopo fetta, che vi serve darle un nome?

Ingredienti:
250 g di carote (già mondate e lavate)
170 ml di succo di arancia (più o meno un paio di arance medie)
80 ml olio di semi (io di mais)
zeste di un’arancia
140 g zucchero semolato
200 g farina 00
16 g lievito vanigliato
cannella
30 g nocciole
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
1 pizzico di sale

Preparazione:
La preparazione del Pan di Carote è davvero molto semplice, vi serve solo un mixer ben capiente e il gioco è fatto.
Iniziate lavando e mondando le carote. Mettetele nel mixer tagliate a rondelle e unite il succo di arancia e l’olio. Frullate per qualche minuto (non ci vorrà molto) fino a che il composto non assumerà la consistenza cremosa.
Se non avete problemi coi latticini, e non avete necessità di seguire un’alimentazione vegana, potete rendere il sapore del Pan di Carote più rotondo usando metà latte e metà succo di arancia.
Questa volta io ho provato con il latte e devo dire che mi ha soddisfatto, ma anche la sua prima versione tutta arancia non è male per niente!

Aggiungete quindi nel mixer anche lo zucchero, il sale, le zeste dell’arancia, l’estratto di vaniglia e la cannella. Potete anche ometterla, ma a me piace molto in autunno, e ne metto un po’, a seconda dell’umore della giornata.

Aggiungete anche le polveri (cioè la farina e il lievito) e frullate un’altra volta.

Prendete le nocciole e tagliatele grossolanamente al coltello.
Unitele al resto del composto, mescolando lentamente.

Mettete quindi l’impasto in uno stampo da plum cake imburrato e infarinato (oppure coperto di carta forno) – potete usare anche degli stampini da mini plumcake.

Cuocete in forno già caldo a 180 gradi per circa 40 minuti.
Dipende dal forno, quindi fate sempre la prova cottura con lo stuzzicadenti.
Una volta raffreddato, potete servirlo spolverato con un po’ di zucchero a velo.

…mica pizza e fichi! Solo focaccine veloci in padella

…mica pizza e fichi! Solo focaccine veloci in padella

In principio era il fico… sarebbe potuto iniziare così il racconto retroattivo di questo mese di settembre. Come nella vita, così in quella sorta di Second Life un po’ sporcata dalla realtà che sono i social si vive di mode del momento, e quando arriva settembre è tutta una profusione di fichi.
Fichi ovunque.
C’è da dire che sono dei frutti fotogenici. Il loro interno vermiglio e granuloso regala lampi di colore e contrasti a sorpresa, e se usiamo i settembrini con buccia verde, abbiamo la nostra bandiera servita direttamente dall’albero!
Aggiungiamoci che il rosso è un fashion statement, abbiamo trovato il protagonista perfetto del mese!

Se questa moda la giustifico e comprendo, un po’ meno le altre. All’improvviso, e qui parlo del food ma è un fenomeno trasversale, una cosa che nessuno si filava prima, diventa virale. Fu così con la namelaka. Un paio di anni fa, se non facevi un dolce con la namelaka, non ti si filava nessuno. Ora è finita nel repertorio, come la canzone dell’adolescenza, che quando risentiamo alla radio sorridiamo beati, con un po’ di nostalgia.
C’è stata la moda delle chiffon cake (che qualcuno ha ribattezzato fluffose con un’idea marketing efficace – dare un altro nome a qualcosa di vecchio è come farlo vivere due vite), quella delle cream tarts, della naked cakes… e via di questo passo.

Quest’anno, i fichi. Questa moda settembrina, devo dire, mi entusiasma, anche perchè è il frutto più antico che si conosca, e perchè con la sua sola presenza riesce ad illuminare qualsiasi ricetta. L’ho proposto in varie versioni dolci, tra confetture, biscotti e quant’altro. Ma alla fine del mese arriva il salato, e la versione più tradizionale, ma anche più semplice: la pizza e fichi in versione mini e veloce, con le focaccine in padella, a lievitazione zero ore.

Ingredienti:
250 g farina 00
mezza bustina di lievito istantaneo per pizza
2 cucchiai di olio EVO (quello buono!)
75 ml latte di riso (se non vi interessa la versione vegan, il latte normale)
60 ml acqua
sale
olio per spennellare la superficie

Preparazione:
In una ciotola mescolate la farina con l’olio e il lievito (però fate attenzione alle istruzioni della confezione, alcune versioni i lievito istantaneo devono essere attivate prima, quindi leggete bene come usarlo!).

Aggiungete a questo punto prima il latte a filo, poi l’acqua, e impastate.

Al termine dell’impasto, unite anche il sale. Io ne metto molto poco, ma fino a un cucchiaino penso sia accettabile.
Finito! Semplice, no?

Ora prendete il matterello e stendere l’impasto che si sarà creato in un rettangolo di altezza di circa un centimetro e, con un coppapasta o un bicchiere, ricavate dall’impasto tanti medaglioni.

Scaldate sul fuoco medio una padella antiaderente, e cuocete le focaccine in padella per un pai odi minuti per lato, rigirandole quando si cuoce un lato.

Quando sono ancora calde, spennellatele con un po’ di olio e sale.

La pappa al pomodoro più buona (per me)

La pappa al pomodoro più buona (per me)

Le ricette tradizionali sono un mito da sfatare, perchè non c’è nulla di più “particolare” delle ricette tradizionali. E per particolare intendo il suo vero significato etimologico, cioè qualcosa di “proprio di un singolo individuo, di una singola cosa, o di una determinata categoria di individui, di cose, non comune quindi a tutti” (e lo dice il signor Treccani!).

Le ricette tradizionali sono la culla del campanilismo, il profumo di casa mia e non tua, da difendere alzando vessilli e cucchiai, al grido di “l’ha fatto nonna per anni e quindi la mia è più giusta della tua!”. Si sono consumate lotte anche su Facebook, insulti atroci, sull’uso di uno o due spicchi di aglio. La verità è che la ricetta tradizionale è un’idea, che quando diventa tradizione diventa di tutti e cambia, si plasma, si modifica e prende il sapore delle mani di nonna, di mamma, della zia che aveva le mani d’oro.. della famiglia, insomma.

Milanese di nascita e origine, a casa mia la famosa cassoeula (ma si scriverà così?) si fa sgrassata, con tanta verdura e possibilmente poca cotenna, un po’ brodosa così anche la polenta tira su il suo sughetto. La mia zia la faceva molto asciutta, lo sgrassamento era un affronto, e se ci stava in un angolino il soffritto si faceva col burro. Stessa famiglia, stessa ricetta, due piatti. Naturalmente, la versione della zia richiedeva una digestione lunga una settimana.

Lo stesso destino lo condividono le altre “ricette della tradizione”, e tra queste la Pappa al pomodoro. Fate mente locale e ditemi in quante versioni l’avete mangiata, o anche solo sentita raccontare. Due, tre, dieci? Vi crederò, perchè ogni famiglia in Toscana (ma pure fuori da questa regione) ha la sua versione che è giustissima, peraltro. Come le altre nove, del resto.

Delle tante che ho provato, quella che vi propongo oggi è quella che piace di più a me. Certo, non sono toscana di nascita, anche se dopo tutte le estati che ho trascorso qui qualcuno dovrebbe pensare a darmi la medaglietta (col pomodoro!). Però ne ho assaggiata qualcuna, a sufficienza per dire che questa è la più pomodorosa e semplice che ci sia. Io uso preferibilmente i pomodori costoluti fiorentini (se non li trovo prendo altri tipi di pomodoro, ma non è la stessa cosa). Quali sono?
Sono questi bei fustacchioni che vedete qui sotto:

Pomodori costoluti fiorentini

Sono pieni di polpa e succo, e hanno dentro un sapore d’estate che è qualcosa di indescrivibile. In via del tutto eccezionale, quest’anno li ho trovati nella mia azienda agricola di riferimento quando vengo qui in Maremma (Stelle di Maremma, sulla strada per Grosseto) e non me li sono fatti scappare. Aggiungete un po’ di pane sciapo (la mia ricetta per farlo in casa la trovate qui), un po’ di aglio, del buon olio toscano… e basilico. E basta così.

Provatela, e ditemi che ne pensate. So che, rispetto alla versione fiorentina (molto simile a quella che assaggiai anni fa a Volterra, e che era tutto un effluvio di aglio e peperoncino) questa è un po’ più pallidina… ma che volete, mi somiglia!!

Ingredienti: (questa è per due persone, se siete di più raddoppiate le dosi)
2 fette di pane sciapo
400 gr circa di pomodori ben maturi (meglio i costoluti fiorentini, se non li trovate usate i pelati)
1/2 spicchi di aglio (a gusto vostro)
6/7 foglie di basilico (ma abbondate se vi piace)
5 cucchiai abbondanti di olio EVO + altro a piacere, da mettere a crudo
sale q.b.
peperoncino q.b.

Preparazione:
Siccome non mi piace la pelle del pomodoro, la prima cosa che faccio per preparare la pappa al pomodoro è sbollentare i pomodori per spellarli. Basta mettere a bollire dell’acqua, quando bolle immergere i pomodori per un minuto e poi tuffarli in una bacinella con l’acqua fredda.
Si speleranno che è un piacere!

Prima di mettere i pomodori, io tolgo un bicchiere circa di acqua bollente, che metto da parte.

In una pentola mettiamo i 5 cucchiai di olio EVO, facciamo imbiondire uno o due spicchi di aglio, poi mettiamo il peperoncino (se non vi piace o ci sono i bambini potete ometterlo), e i pomodori spellati e già tagliati a pezzetti.

Facciamo cuocere dieci minuti, un quarto d’ora, fino a che non diventa un sugo amalgamato. Potete aiutarvi con una forchetta per rompere la polpa, o una frusta a mano.

Intanto, prendete il pane sciapo passatelo sotto l’acqua del lavandino, in modo che prenda acqua. Fatelo riposare in un piatto.

Quando la salsa si è ben rappresa, strizzate bene il pane e tuffatelo nella salsa, rompendolo con le mani. Aggiungete anche l’acqua che avete messo da parte, il basilico spezzettato, sale a vostro gusto, e cuocete il tutto ancora per dieci minuti. Mescolate sempre bene con la frusta a mano o la forchetta, così il pane si amalgamerà bene al resto e diventerà una specie di vellutata.

A fine cottura, fate riposare la vostra Pappa al pomodoro almeno un’ora.

Potete servirla fredda oppure riscaldata.

Prima di servire la Pappa al pomodoro, io aggiungo ancora un po’ di olio a crudo e qualche fogliolina di basilico fresco.

La Schiaccia e un pezzo di cuore in Maremma

La Schiaccia e un pezzo di cuore in Maremma

Arrivai qui un pomeriggio assolato di vent’anni fa. Gironzolavo in auto in una delle estati più brevi della mia vita, schiacciata tra gli impegni di un nuovo lavoro e una nuova dimensione di vita. La meta avrebbe dovuto essere molto più su, a Cala Violina, ma una volta arrivata là scoprii che avrei dovuto prenotare almeno il parcheggio. Vent’anni fa internet era un’altra cosa.

Un po’ delusa girai la macchina verso sud, diretta a Castiglione della Pescaia. Dopo pranzo, con un caldo che annientava, mentre pensavo ai vecchi colleghi che avevo appena lasciato, mi assalì una sorta di pigra malinconia. In quel momento, mi ricordai di una collega che mi aveva raccontato diverse volte, davanti a un tristissimo petto di pollo al vapore nella mensa dell’ospedale dove entrambe lavoravamo allora, delle sue estati in Maremma.

Salii in macchina e cercai questo Eden formato famiglia, da cui avevo intenzione di chiamarla per dirle che ero là. La strada da Castiglione attraversa una pineta rigogliosa, punteggiata da camping e ciclisti, qualcuno in costume e qualcuno che pare attardato dall’ultimo Giro d’Italia. Tutto intorno il rumore delle cicale. Tante.

Dopo il bivio per Marina di Grosseto vidi un cartello, che mi diceva di svoltare a destra. Finalmente all’ombra della pineta, attraversai il lungo viale che negli anni ho imparato a conoscere e ad amare.
Arrivai che erano forse le due o le tre del pomeriggio. Non c’era nessuno in giro. La strada principale era quasi deserta, fatta eccezione per i pochi avventori di un bar all’angolo di una via, e qualche turista in bicicletta con i salviettoni nel cestino. Con il sole a picco, parcheggiai la macchina all’ombra in una via laterale, e iniziai a passeggiare sotto la pineta, a cercare un po’ di sollievo dal caldo.

Tutto era tranquillo, quasi irreale. Come se il tempo si fosse fermato. Sotto la pineta, invisibili al mio arrivo, scoprii tantissime casette, per la maggior parte villette, con un piccolo giardino davanti. Qualche condominio al massimo a due piani, con bellissimi balconi. Ma era la pineta la protagonista, con il suo caratteristico profumo, le fronde che si agitavano al (poco) vento di una assolata giornata di metà agosto, e qualche pigna in caduta libera da schivare.
Mi immaginai seduta sotto uno di quei meravigliosi patii a guardare trascorrere l’estate senza tv, senza rumori che non fossero le cicale e i miei pensieri. Pensai che sarebbe stato bello trascorrere un’estate così.

Sono diciassette anni quest’anno di queste estati in Maremma. Non riesco a pensare a nessuna vacanza più rilassante di questa. Di posti che conosco e che mi mancano. Quando a maggio inizio a sentire la stanchezza, mi assale la voglia di svoltare a destra e di immergermi nella (ormai anche mia) pineta.

Spiaggia delle Capanne

Per tanti anni abbiamo trascorso il mese di agosto in un appartamento proprio sopra il forno. Ogni mattina eravamo svegliati dal rumore delle cicale e dal profumo del pane e della schiaccia appena sfornata. La Schiaccia può essere più o meno secca, e tipica del grossetano è quella con acciughe e cipolle, che erano gli alimenti poveri del tempo. Era tipica delle zone costiere, quando i pescatori, tornati dal mercato, tenevano per la famiglia solo le varietà più povere del pescato del giorno, oltre naturalmente alle immancabili cipolle. Personalmente preferisco quella alla pala, che si può gustare da sola, o con i salumi della zona… o come volete voi!
Non so se questa che vi lascio sia la ricetta tradizionale della Schiaccia.
Sicuramente è una versione molto veloce (e, come dicono gli inglesi che nel Chiantishire, non lontano da qui, la fanno da padrone, fuss free), quando vi assale la voglia di… come diceva quella pubblicità? Sì, qualcosa di buono!

Ingredienti:
500 g di farina (metà 00 e metà manitoba)
300 g acqua a temperatura ambiente
50 ml di olio EVO (toscano, ovviamente!!)
8 g di lievito di birra fresco
10 g sale
sale grosso e olio evo per condire la superficie

Preparazione:
Preparare la schiaccia è facilissimo, e anche chi non ha basi di lievitazione (come me!) può avere ottimi risultati.
Sciogliete il lievito nell’acqua a temperatura ambiente (se usate il lievito di birra secco mettetene metà grammatura e seguite attentamente le istruzioni sulla confezione per attivarlo!).

In una ciotola capiente (o nel boccale della planetaria) mettete le farine, amalgamatele e poi inserite metà dell’acqua con il lievito sciolto . Quando si sarà assorbita, mettete il sale, mescolate e poi versate la seconda metà di acqua che rimane, e l’olio.

L’impasto sarà molto appiccicoso, ma va bene così. Se lo fate a mano, aiutatevi con un cucchiaio.

Coprite e fate lievitare fino almeno al raddoppio. Dipende dalla temperatura esterna, in estate due ore bastano, d’inverno magari ce ne vogliono pure tre o quattro, se fa freddino.

Riprendete l’impasto, e su un piano di lavoro ben spolverato di farina (altrimenti appiccica!) fate fare un giro di pieghe all’impasto. In parole povere: stendetelo in forma rettangolare con le dita, piegate prima i lembi superiore ed inferiore, e poi i due laterali, tipo a portafoglio.

Copritelo con la ciotola e lasciatelo lievitare sul piano di lavoro ancora mezz’ora.

Fate un’altra piega e lasciatelo coperto dalla ciotola per il tempo necessario a scaldare il forno a 250 gradi.

Quando il forno è caldo prendete una teglia (io la fodero con la carta forno) e stendete l’impasto della Schiaccia con le dita. Versate sulla superficie dell’olio (a vostro gradimento, io almeno ne uso 4 cucchiai… ok, cinque!) e spargetelo con le dita creando delle fossette sulla superficie così l’olio si raccoglierà lì e.. ma che ve lo dico a fare?
Distribuite un po’ di sale grosso sulla superficie e cuocete la Schiaccia per circa venti minuti.

Quando la Schiaccia è ancora calda, potete anche distribuire sulla superficie dell’altro olio (un cucchiaio basterà) per renderla ancora più golosa.

Se volete cimentarvi in un altro lievitato toscano, perchè non provate la mia versione del Pane sciapo?